“Cani” è il titolo dello spettacolo della Compagnia Michele Bandini/Zoe, andato in scena il 1° Settembre 2022, presso la sede di Astràgali Teatro in via Candido, 23 a Lecce. Testo, regia ed interpretazione: Michele Bandini; consulenza drammaturgica e assistenza alla regia: Carolina Balucani; disegno luci: Emiliano Austeri.
Al centro del proscenio, posta in verticale, vi è una tavola di legno, che pare una porta. Sulla scena, poco illuminata, compare un uomo: camicia bianca, maglione scuro, giacca/camicia scozzese di colore azzurro-verde, un paio di pantaloni verdognoli e stivali di gomma verdi. Ha in mano un piccolo pacchetto, avvolto da una carta bianca e tiene la testa bassa. Lentamente e con maniacale precisione lo scarta, è un panino. Qualcuno gli domanda: “Oh… Eh… Che fai?” – e lui risponde: “Come che fò?” – (voce): “Magni? Che magni?” – lui: “Mo che te ne frega di quello che magno io? (voce): “Maiale” – lui: “mi stai insultando? Stai zitto!”, e mentre sta per mordere il panino, nuovamente si ferma. Riflette sul fatto che il suo panino contenga maiale, e che questo animale sia geneticamente molto simile all’uomo, dunque, è come se stesse mangiando un uomo. Si domanda ancora il perché non sia il maiale ad essere considerato il miglior amico dell’uomo, al posto del cane. Comunque, decide di non mangiare il panino, ed inizia a brontolare nel suo dialetto di Foligno, mentre ancor più meticolosamente di prima, ripiega la carta che lo contiene. L’uomo dialoga col figlio, in quel luogo che sembrerebbe essere, l’interno di una piccola casa di montagna (visto l’abbigliamento) e lascia immaginare che oltre quella porta ci sia un bosco. È rude nei modi e nella voce, la scelta del dialetto folignate stabilisce quel codice emotivo ed espressivo che evidenzia un atteggiamento grottesco ma chiaro, grazie alla sua facile comprensione e musicalità che lo contestualizza, riportandolo alle sue origini. “Fa freddo” dice… poi, ride e vorrebbe dormire ma bussano alla porta, ripetutamente, insistentemente: “Chi è?”. “Stiamo cercando un uomo come te”, dice una voce, “ma io non ho fatto niente” dice lui, e ancora: “so quello che hai fatto papà”, “papà che ridi”, “mettiti di là e stai zitto”. Dopo aver preso la tavola di legno, si rannicchia sotto la stessa, come fosse un lenzuolo. “Non chiamarmi papà, non mi somigli”, “ti chiamo col fischio, cretino, zitto! – Perché non ti ho lasciato come un cane?”. Ecco che torna la parola “cane”, metafora di quel rapporto uomo-cane, padre-figlio in una condizione di dipendenza emotiva, un rapporto di fedeltà, quello che un cane può avere verso il suo padrone, un rapporto d’amore, quello che un figlio cerca di stabilire con suo padre. “Alla porta ero io” confessa il figlio, aggiungendo di averlo fatto per mettergli paura. Il padre: “sei sempre stato stupido, dovrei staccarti la testa e darla ai maiali”. Poi, chiede al figlio di dormire, che ubbidisce mettendosi a terra, irrequieto. Ma come si fa a dormire mentre uno parla e l’altro invece sogna di avere 10 anni e di giocare con tanti animali e nel sogno: “Dritto con le spalle e vieni a cena… vieni con me ho le scarpe bagnate, vieni prendi il fucile e spara, spara. Non sai sparare. Oh! non abbiamo mai visto un animale io e te. Vieni prendi i fagiani e sparali, vedo il sangue”, così finisce il sogno. Ecco il bosco, non rigoglioso e verde ma scarno, un albero (un vero tronco delle foreste di Civitella di Foligno), da tagliare per farne legna e riscaldarsi, perché fa freddo. Poco distanti due pietre. “Papà giochiamo?” “Va bene”, dice il padre “io prendo un sasso e te lo tiro e tu lo riporti”. “Ma che gioco è?” chiede il figlio, che non vuole più tornare a casa e dice al padre: “Se io muoio di freddo ti dispiace? Vai tu a casa e lasciami qui”. E il padre lo fa ritorna a casa da solo. Ora la tavola di legno diventa “tavolo” e lì vi distende le braccia. Poi, riprende il panino, lo scarta ed inizia a mangiarlo, si toglie il cappello e mangia e parla… “Uno per non sentire freddo dovrebbe darsi fuoco”. Parla del figlio che pare matto, e aggiunge, che gli dispiacerebbe se morisse, anche se morire ha i suoi lati positivi, perché si dorme da soli e a stare dentro la cassa ci si abitua. Con un deciso movimento fa un cambio di scena, la tavola/cassa è sopra di lui quasi a soffocarlo. “Madonna che caldo” e intanto sulle note della canzone “il cielo in una stanza” di Gino Paoli e la voce di Mina, chiede aiuto al figlio: “dai, aprimi che non ce la faccio a toglierlo, aprimi non mi senti?”. “Quando sei qui con me”… la musica sovrasta la sua voce. Ma il figlio è già lì, pronto ad aiutarlo e a sollevare quella tavola, che resta a terra mentre dice: “se non ci fossi io che faresti?”.
Un’essenzialità drammaturgica quella proposta da Bandini. Semplice ed al tempo stesso complessa, perché così è la vita e le sue relazioni tra Umani/Cani, che si manifestano nell’ istintività, fedeltà, amore. Eric Fromm affermava che l’individuo si sente tanto più solo quanto più realizza le proprie libertà. Una continua contraddizione dettata dal suo essere animale legato alla natura e dalla quale si separa in quanto umano. Bandini propone un uomo rude, che esprime una violenza verbale ingiustificata, un figlio debole, sottomesso, ed una piccola finale ribellione e riconciliazione, come se il sentirsi vicini alla morte potesse cambiare il proprio modo di essere. Due punti di vista, uno paventato anche da una “presenza” scenica, l’altro dalla sua “assenza” che consente allo spettatore di ritrovare i propri punti di forza e di debolezza. Una scena asciutta che lascia spazio all’immaginazione, a quel mondo/bosco interiore che prende forma, colore, odore anche grazie alle luci che creano la giusta atmosfera ed alla capacità di saper raccontare in quella lingua “madre” dialettale, che cattura, trasferisce e traduce le mille sfumature dell’amore che istintivamente e nonostante tutto, lega un padre ad un figlio ed un figlio ad un padre.