Lecce – È andato in scena sabato 28 Gennaio ’23, presso i Cantieri Teatrali Koreja, a Lecce, lo spettacolo dal titolo esortativo: “Parla, Clitemnestra!” un’eterna tragedia in versi di Lea Barletti, con Lea Barletti e Gabriele Benedetti.
Lea Barletti è attrice, performer, romana di nascita, ma leccese di origini, inizia a lavorare a Roma con la Compagnia Solari-Vanzi e con altri gruppi della scena sperimentale romana e nazionale. Insieme al suo compagno Werner Waas (attore e regista bavarese, nel ’93 insieme a Musio, Parenti e Randone, fonda la compagnia “Quellicherestano” e con lo stesso gruppo Area 06. È responsabile dell’Itz Berlin per il progetto FabulaMundi – Playwriting Europe. Collabola stabilmente con “Martin Clausen & Kollegen” e “Lajos Talamonti”), e Cecilia Maffei fonda il gruppo Induma Teatro, che è tra i fondatori del Centro culturale Manifatture Knos di Lecce. Insieme a Waas, col nome Barletti/Waas, prosegue la ricerca nell’ambito della drammaturgia contemporanea. Scrive racconti brevi e poesie. Nel 2018 esce la sua raccolta: “Libro dei pensieri dispersi e dei ritornati”. Menzione speciale al premio Cardarella per il Teatro con “Monologo della buona madre”.
Gabriele Benedetti è attore, diplomato all’Accademia Nazionale d’arte drammatica Silvio d’Amico di Roma. Collabora dal 1991 con Giorgio Barbiero Corsetti e con la Compagnia “Quellicherestano” diretta da Werner Waas e dal 2005 con l’Accademia degli artefatti, diretta da Fabrizio Arcuri e con il Centro Teatro Stabile di innovazione del Friuli- Venezia- Giulia, regia e produzione Barletti/Waas con il sostegno di Florian Metateatro e Consorzio Altre Produzioni Indipendenti. Lo spettacolo fa parte di un progetto culturale che propone: 27 Gennaio “Autodiffamazione”, 28 Gennaio “Parla, Clitemnestra!” e 29 Gennaio “Monologo della buona madre” e “Ashes to Ashes”.
Al centro della scena, una piattaforma quadrata. Gli spettatori, solo 90, si accomodano intorno ad essa. Ad alcuni di loro è stata consegnata una torcia, da utilizzare per illuminare la scena, che resterà al buio. Un piccolo spazio dove, su minuscoli sgabelli, siedono un uomo ed una donna, come statue bianche, l’uno di fronte all’altra, e vicini come se entrambi si sussurrassero qualcosa all’orecchio. Il buio in sala è prontamente colmato dall’ accensione delle torce, che creano suggestioni inaspettate e particolari ombre sulle pareti della sala. Lentamente la donna, Clitemnestra, sposta il braccio, alza lo sguardo e la mano. Poi, “Ah… non più il tuo volto umano nella mia mente è quel che io vedo ma inesorabilmente… Il dolore come ragno amaro le divora eppure era prima tanto caro… io non t’ho perdonato…” e Agamennone: “Io lo so dove vuoi arrivare…lo so che è un altro il motivo del tuo silenzio, cara. “Cara?” sottolinea Clitemnestra rivolgendosi a un ipotetico Coro, “da quando ti sono cara, tesoro?”. Inizia così il dialogo tra i due personaggi dell’antica tragedia. L’autrice Barletti ne mantiene il rigore classico con un linguaggio in versi, in rima baciata, ed un lento scandire delle parole e dei gesti in un flusso continuo, volto a catturare l’attenzione del pubblico, che ascolta, attratto da quei volti illuminati dalle ignare mani, che seguono un’involontaria eppure efficace regia. Agamennone, dagli intensi occhi azzurri e dalla calda voce, le dice “solo tu risvegli in me la possibilità di rinunciare ad un’altra battaglia” e Clitemnestra parlando a sé stessa, dice “No, no Clitemnestra, non ti piegare alla parola amore…” Questa la parola chiave, Amore. Ma di quale amore stiamo parlando? Dell’amore intimo, fragile, complice o di quello fatto di passione e di fisicità, di amore per il potere? che mette in faccia al Re una maschera neutra, imperturbabile tanto da sacrificare agli Dei la propria figlia Ifigenia, o ancora quello che per affermarlo, condanna a morte altri innocenti come la piccola Elena. Clitemnestra, prima ancora preda, subisce la morte del marito e del figlioletto in fasce, poi moglie lasciata sola, ingannata, tradita, ignorata. È uno scambio di accuse, da manuale di psicologia, si dirà. Da unico accusato Agamennone, diventa fulcro di un’invettiva contro gli uomini “vampiri sul corpo delle donne” usate come merce di scambio, trofei da esibire, carne fresca. Poi, di una contro le donne, che parlano male delle altre donne, che ne esaltano i difetti, in una guerra al femminile che si tramanda. Un piccolo faro sopra le loro teste restituisce a Waas lo scettro della regia, e mentre i corpi seminudi e messi a nudo dalle colpe del passato e dagli errori del presente, continuano a ruotare, il loro sguardo è sempre più diretto allo spettatore-testimone di un atavico e attuale tema, che vede nell’uomo e nella donna il loro perpetuo attrarsi e rinnegarsi, in un linguaggio che via via diventa più contemporaneo e anche troppo didascalico, in un continuo rigurgito di accuse. La luce piena sulla scena, accompagnata dalle parole di Clitemnestra è come una cascata di grandine: “ci sputo sopra sulle ragioni dei forti, e sulle voci di vendetta, io sputo sulla tua paura. Io la traditrice, cagna, reietta, mossa da una rabbia che mi rende pura, ti faccio grazia della tua vita, ti lascio alle tue colpe”. A questo punto Agamennone si alza, felice di poter ancora vivere ed esce di scena, poi si volta e dice “ma tu, sei sicura di voler restare? Clitemnestra, chiamando ancora una volta in causa gli spettatori dice “Mi pentirò? Non lo so e francamente non me ne importa, di rimpianti è fatta questa vita” “più lieve è sapere che nessuno è morto per mia mano”. Agamennone torna non più bianco ma lavato e aggiunge “sarà la menopausa… le donne si sa, sono volubili d’umore” guarda sorridendo, come chi sa di averla detta grossa… Finalmente sono deposte le maschere, i corpi liberati dal peso dei loro nomi, Agamennone, da mémnon “molto deciso” e Clitemnestra, klutos mestor “celebre ispiratrice”, restano un uomo e una donna, ed un continuo specchiarsi l’una negli occhi dell’altro in quell’eterno conflitto che attraversa la quotidianità della vita. Un ventaglio di tematiche anche a volte banali e ovvie, ma la vita è anche questa. Un plauso per aver saputo costantemente tenere alta l’attenzione con la delicatezza del gesto e con la forza delle parole.