Siamo ormai vicini alla fatidica notte del 31 dicembre e mentre si mangia, si beve e si gioca (spesso la tombola, come per il Natale, tiene occupati nell’attesa) ognuno aspetta allegramente il nuovo anno. I calici sono pronti per produrre il dolce suono simile ad un tintinnio di carillon, colmi di bollicine per il brindisi augurale.
Si partecipa lasciando dietro le spalle ogni pensiero triste e malinconico per essere ‘spumeggianti’ aspettando la mezzanotte che segna il passaggio al nuovo anno, come già accadeva all’epoca dei Romani (Anno novo fastum felix tibi sit), scambiando auguri e rinnovando così, per l’ennesima volta, speranze per un futuro migliore.
Eppure se consideriamo la preziosità del tempo, con il sempre attuale desiderio di fermarlo, perché aspettare l’ora del nuovo anno con viva trepidazione? Perché accanirsi su quello che sta per finire se in fondo siamo noi stessi ad averlo festeggiato augurando e, in molti casi, promettendo ogni bene?
A dire il vero non mancano persone che desidererebbero rallentare il tempo per realizzare i propri desideri visto che esso non è mai sufficiente, mentre altre vorrebbero fermare il cosiddetto attimo fuggente, magari per eternare un momento particolare di quelli che capitano raramente nella vita. Se tutto scorre (pànta rei) e il tempo che passa si distrugge non significa lasciarsi vivere piuttosto che vivere intensamente da protagonisti ogni momento.
Sarebbe bello, invece, considerare il nuovo anno come prosecuzione del precedente: un nuovo tassello della nostra esistenza ove riusciamo ad aggiungere un’ulteriore tappa di un cammino pur sempre faticoso. Probabilmente se riusciamo a scrollarci di dosso tutto ciò che rappresenta il negativo (i cosiddetti rami secchi), il nuovo viaggio, con una buona dose di coraggio, può essere sicuramente meno difficoltoso tanto che è sempre possibile «costruire qualcosa di bello anche con le pietre che trovi sul tuo cammino» (Goethe).
Tornando all’attesa del nuovo anno e ai buoni propositi inviterei a riflettere sul noto proverbio «Chi ben comincia è a metà dell’opera» in quanto per ogni viaggio c’è sempre da programmare una buona partenza tanto che in molti casi può risultare determinante.
Tale predisposizione potrebbe portare tutti noi ad essere, almeno il primo giorno dell’anno, più gentili, caritatevoli, comprensivi e chissà che non diventi un modus operandi tanto da modificare i nostri cuori? In fondo basterebbe coltivare i valori universali che rispettino la dignità umana e trovare il coraggio di chiedere scusa tutte le volte che sbagliamo, accogliendo il perdono come antidoto a tutti i mali e ai vecchi rancori. Considerando che non siamo nati per essere eterni, anche per i non credenti occorrerebbe seguire l’invito di San Luigi: «Vivete come se ogni giorno aveste a morire» che in altre parole significa vivere come se fosse l’ultimo giorno della nostra esistenza.
Ritornando agli auspici per il primo giorno dell’anno, accogliamo tutto ciò che possa considerarsi rinascita, l’unica strada che può avvicinare ad una vita migliore, formulando sinceri auguri.
Intanto, facendo tesoro dei principi del Cantico delle creature di San Francesco, dovremmo ringraziare la vita e il creato: il sole, la luna e le stelle, il vento, l’aria e il cielo, le stagioni, l’acqua, il fuoco e la nostra sorella madre terra, la quale ci dà nutrimento e ci mantiene. Se il nostro pianeta è in salute, di conseguenza lo siamo anche noi.
Rivolgendomi agli uomini inizierei con gli auguri agli ultimi, a chi soffre e agli ammalati che non hanno perso la speranza, a quanti si trovano, loro malgrado, ostaggio delle guerre nel mondo, a chi non ha un lavoro, a coloro che aspettano una giustizia giusta, o vede calpestata quotidianamente la propria dignità e a chi vive schiavo di ogni male e infine, non per ultimi, ai nostri amici animali che con il loro affetto rappresentano i fedeli compagni del nostro viaggio.
Buon 2023 (prosit) a tutti e a presto con un nuovo inizio consapevoli, che ogni nuovo inizio derivi dalla fine di un altro inizio, un concetto universale che troviamo anche nel rondeaux di Guillaume de Machaut: «Ma fin est mon commencement / Et mon commencement ma fin», che, in virtù della reiterazione del canone, può essere immaginato anche come infinito vicino ai moti dell’animo di leopardiana memoria.
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