Chi ha visto crescere un bambino, ricorda sicuramente le indicibili emozioni che prova chi registra, giorno dopo giorno, i suoi progressi. Sensazioni scolpite nella memoria dei genitori, soprattutto quelle legate ai primi sorrisi di soddisfazione (che i pediatri chiamano “gastrici” perché legati alla soddisfazione della fame), alle prime parole, ai primi gesti. Spesso però questi progressi, verso una comunicazione sempre meno elementare e sempre più elaborata col passare dei mesi, si interrompono bruscamente; anzi si assiste alla regressione dei contatti con i propri simili, chiudendosi in una specie di isolamento.
Stiamo descrivendo l’Autismo (o, meglio, i Disturbi dello spettro autistico), di cui ieri si è celebrata la Giornata mondiale: disturbi del sistema nervoso centrale ad esordio precoce, che si manifestano già nei primi anni di vita e provocano forme di disabilità complessa molto difficile da gestire, riguardando le interazioni comunicative di diversi livelli sociali e comportamentali. I bambini affetti da questa sindrome, con diversi gradi di disabilità, sono spesso incapaci di relazionarsi con gli altri, essendo incapaci di comprendere e gestire il complesso sistema di comunicazione tra individui elaborato nel corso di milioni di anni dalla specie umana. Questo li porta ad isolarsi, così come può fare uno straniero che non comprende la lingua, i messaggi, i codici di un altro paese e non è in grado di superare questo handicap. E per le famiglie si apre una vita di dolori, dalla scoperta della patologia, alle difficoltà di gestire casi spesso difficilissimi senza alcun supporto che non sia l’indennità di accompagnamento; non sono rari i casi di madri che abbandonano il lavoro nell’impossibilità di condurre una vita normale.
Negli anni ’60 ebbero inizio i primi studi specifici su questa sindrome, con un approccio di tipo psicologico che portò ad addossare implicitamente le “colpe” di questo disturbo comportamentale alle madri (definite “frigorifero”), per la loro presunta incapacità di trasmettere affetto e quindi indirettamente responsabili dell’handicap. Questa linea di pensiero aggiunse danno al danno, colpevolizzando assurdamente i genitori di questi bambini sfortunati. Il Prof. Bollea, esimio Neuropsichiatra infantile romano, fu uno dei primi a portare in Italia un approccio diverso per la cura degli autistici, cercando di stimolarne precocemente il recupero. In quegli anni non esisteva ancora l’integrazione dei diversamente abili e solo a Roma partivano le prime classi sperimentali.
Oggi la situazione è profondamente cambiata: si sa che tali disturbi sono causati dal malfunzionamento di una parte del tronco encefalico e che chi è affetto da autismo riesce a decodificare i particolari di un oggetto, di una persona, di una situazione, ma è incapace di cogliere il significato del tutto, di integrare le informazioni, di trarne un messaggio compiuto. Probabilmente tali deficit hanno un effetto comune, ma molte cause che ancora non sono state scoperte e si è ancora lontani dalla terapia. Di questa malattia poi, finalmente, si parla; anche grazie al contributo di giornalisti come Gianluca Nicoletti, che vivono in prima persona questa situazione e che ne hanno descritto i particolari in un libro (Una notte ho sognato che parlavi – Mondadori Editore).
L’obiettivo attuale è però un altro: molti dei progressi possibili dipendono dalla precocità della scoperta dei primi sintomi (l’incapacità di indicare gli oggetti, per esempio) e delle competenze che i docenti di sostegno dovrebbero acquisire per meglio supportare questi piccoli angeli. Spese difficili da affrontare dalle finanze pubbliche, ma che risparmierebbero altre spese, molto più rilevanti, se si riuscisse ad aumentare il loro grado di autonomia. La Onlus che si occupa di questa patologia, e delle famiglie che devono portarne il peso (Angsa), ha presentato una proposta di legge allo scopo: progressi indispensabili per migliorare la qualità della vita di quei bambini e delle loro famiglie (in Europa si parla di un caso ogni 100-130 nascite, mentre in America si stima che sia interessato un bambino su 70). La Giornata mondiale si spera che aiuti a realizzare questo obiettivo.
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