Stop alla fuga di cervelli, nasce il “South Working”

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Fin dall’alba dei tempi, l’Italia è protagonista di una fuga di cervelli. Sono tantissimi i giovani del meridione costretti ad abbandonare il loro territorio per intraprendere una carriera lavorativa al nord, perché “al Sud non c’é lavoro”, “il Sud non offre opportunità lavorative valide”, “al Sud non si può fare carriera”. Basti pensare che uno studente su quattro nato al Sud decide di frequentare l’università nelle regioni settentrionali, per la “cronica debolezza della domanda di lavoro” nei territori di provenienza, e questo comporta un “costo” di 3 miliardi l’anno per il nostro Mezzogiorno.
Eppure, le cose stanno cambiando nel mondo del lavoro, dove si sta mettendo in atto una sorta di rivoluzione attraverso il cosiddetto “South working”.
Il south working mira ad abbattere disparità e divari e consiste nello svolgimento di un lavoro da remoto per un’azienda del Nord o Centro Italia, rimanendo fisicamente all’interno del proprio territorio. Il fenomeno del South working deriva dall’associazione no profit “South working – Lavorare dal Sud”, fondata dalla ricercatrice palermitana Elena Militello, i cui obiettivi sono creare un network di supporto agli smart worker, promuovendo lo stile di vita basato sul south working, sviluppare condizioni idonee nelle regioni del Sud per lavorare al meglio, proprio come se si fosse in sede, mantenendo alti livelli di produttività. L’associazione, che collabora con Svimez e Fondazione con il Sud, intende il termine “Sud” in maniera relativa, promuovendo di fatto la possibilità di lavorare da qualsiasi luogo si preferisca. Da una ricerca dell’associazione, basata su un campione di oltre duemila lavoratori, è emerso che l’85,3% delle persone se potesse vivrebbe al Sud mantenendo la propria occupazione in smart working. Il south working coinvolge proprio tutti i giovani del Sud Italia e può essere considerato una declinazione dello smart working, diffusosi in Italia a partire da Marzo 2020, quando la pandemia di Covid 19 ha obbligato molte imprese a reinventare la propria organizzazione interna attraverso un processo di digitalizzazione che si è rivelato indispensabile per garantire la continuità operativa aziendale e la fornitura di servizi nonostante l’emergenza sanitaria. Molti lavoratori o studenti fuori sede, grazie allo smart working, sono riusciti a rientrare nella propria regione e a svolgere da lì le proprie attività, generando quindi una migrazione inversa, da Nord a Sud. Ed è stata proprio questa migrazione, rivelatasi tutt’altro che momentanea, a rendere possibile la diffusione del south working. Attualmente molti studenti sostengono esami universitari in via telematica, allo stesso modo, molti professionisti e lavoratori del Sud Italia hanno la possibilità di lavorare da remoto nella propria regione promuovendo la coesione economica del Paese e risanando il divario tra Nord e Sud.
Secondo i dati presentati a novembre 2020 da Svimez – Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno, basati su un’indagine affidata a Datamining che ha raccolto le informazioni da centocinquanta grandi imprese, dall’inizio dell’emergenza sanitaria in primavera sono quarantacinquemila i lavoratori di aziende del Centro-Nord in smart working dal Sud.
Il south working offre numerosi vantaggi. In primis, grazie all’opportunità di restare a lavorare al Sud, molti giovani e le loro famiglie non sono obbligate ad affrontare i sacrifici, economici e non, legati al trasferimento in un’altra regione. Ma non è tutto. Il south working rappresenta una grande occasione per le aziende, che registrano una significativa riduzione dei costi del lavoro svolto in presenza e che possono avere una maggiore flessibilità nella gestione degli orari di lavoro e persino per lo Stato, poiché, se il fenomeno si diffondesse su tutto il territorio nazionale, si ridurrebbe il problema della disoccupazione al Sud e della disparità in termini di opportunità e sviluppo tra regioni.
Ma il principale vantaggio deI South working è il possibile rilancio dell’economia territoriale. Infatti, il fenomeno dell’emigrazione verso il Nord Italia, soprattutto di lavoratori giovani e qualificati ha portato negli anni alcune aree rurali o interne a “restare arretrate” dal punto di vista economico e rispetto all’erogazione di servizi. Inoltre, il south working migliora i livelli occupazionali in più regioni e induce il Mezzogiorno a includere tra le proprie priorità gli investimenti in digitalizzazione, volti a ridurre il digital divide, ossia il divario digitale, che si traduce sia in un accesso limitato alla banda larga, sia in una scarsa dotazione di Pc e tablet da parte della popolazione.
Una soluzione di lavoro basata sul south working rappresenta una possibilità concreta e allettante di intraprendere una carriera direttamente da “casa propria” e potrebbe persino travalicare i confini italiani.Tuttavia, il South working non si è ancora diffuso in maniera capillare, poiché non è possibile demandare solo alle aziende il compito di gestire questo rilancio. Per stimolare il fenomeno e favorire le ricadute benefiche, è necessario istituire politiche ad hoc che agevolino il ricorso a questa modalità di lavoro. Le grandi imprese hanno bisogno di incentivi per considerare l’ipotesi di poter lavorare in south working, per esempio incentivi di natura fiscale, investimenti relativamente all’erogazione dei servizi (per esempio sanitari e alla famiglia), ma anche alle infrastrutture.
Chissà, forse tra non molto il south working diventerà il principale modo di intendere il lavoro in Italia, un lavoro agile, che non ha limiti di confini e distanze.